Centri di Assistenza Primaria “Facite Ammuina”

 
Dopo oltre un mese di oblio sono nuovamente di attualità i CAP, cioè i Centri di Assistenza Primaria, che avrebbero dovuto essere il perno del sistema di medicina territoriale e su cui dovrebbe fondarsi gran parte della riforma sanitaria regionale approvata con la L. R. n. 17 del 2014. Sono già passati due anni e mezzo, ma l’elemento che sembrava centrale e fondante dei nuovi assetti organizzativi della sanità pubblica, sembra rimanere, almeno a Trieste, una chimera.
 
Pochi giorni fa il Segretario FIMMG di Trieste, il Dr. Dino Trento, ha ribadito sui media che la maggior parte dei medici di medicina generale non ha intenzione di aderire ai CAP, per tutti i motivi già addotti nei mesi precedenti, ai quali se ne aggiunge uno nuovo, preponderante ed insuperabile: il rischio per la sicurezza dei malati.
 
Infatti allo stato attuale l’indisponibilità in questi centri di adeguati strumenti informatici non consentirebbe al medico di conoscere le notizie cliniche dei pazienti, come i farmaci assunti, le eventuali allergie, gli esami compiuti, da cui il pericolo di errori.
 
E perché si dovrebbero esporre a rischio i propri pazienti? Quali e quanti benefici ci si attende dall’apertura dei CAP che possano rendere accettabili tali rischi?
 
E’ tempo di fare finalmente chiarezza su cosa esattamente dovrebbero fare i CAP.
La legge regionale 17/2014 prevede che i CAP debbano assicurare l’erogazione delle prestazioni di assistenza primaria, quindi di medicina generale, infermieristiche, ambulatoriali, domiciliari e specialistiche. Per tutta questa mole di attività devono a norma ospitare, oltre agli ambulatori medici, anche i punti prelievo, la diagnostica strumentale di primo livello, gli ambulatori specialistici, nonché i servizi di salute mentale, i servizi distrettuali di prenotazione e amministrativi.
 
In pratica viene elencata tutta l’attività finora svolta nei distretti, ma prevedendo una moltiplicazione di strutture e sportelli, senza definire puntualmente dei percorsi programmatici e operativi coerenti con i profili organizzativi e normativi della medicina generale, nonché compatibili con le risorse disponibili.
 
Sembrano quindi derivarne strutture senza compiti precisi e assetti organizzativi definiti, sostanzialmente inutili e costose; e non è infatti un caso se la realizzazione dei CAP procede assai a rilento in tutta la regione, o sia addirittura bloccata, come a Trieste.
 
Alcuni dei pochi CAP già realizzatati in regione sembrano funzionare, ma in realtà si tratta di strutture preesistenti, come ad esempio i poliambulatori di Tarvisio e di Muggia, che esistevano già prima della legge di riforma, e con questa hanno semplicemente cambiato nome sulla porta: da poliambulatorio a CAP, quindi innovazione formale, con mantenimento sostanziale dell’esistente, che già funzionava.
 
Ma i CAP sono stati declinati dalla Riforma sanitaria come il perno del nuovo sistema di assistenza territoriale e sono stati ripetutamente annunciati sia dal Presidente della Giunta Serracchiani, sia dall’Assessore alla Sanità Telesca, addirittura come la “rivoluzione” che avrebbe trasformato profondamente la sanità regionale, mettendovi al centro il cittadino.
 
Quindi pare politicamente assai arduo un dietro front, perché significherebbe ammettere il fallimento della riforma e dover ritrattare slogan ed annunci ad effetto ripetuti per tre anni di fila.
E allora come farli funzionare, seppure in regime ridotto? Non sembrano esistere ad oggi indicazioni chiare e lineari su come i CAP dovrebbero lavorare, ma devono comunque lavorare, almeno per togliere dall’imbarazzo i vertici politici regionali.
 
Ed ecco dunque la formula per riempire i CAP di pazienti.
I medici di medicina generale assegnati ad un determinato CAP dovrebbero lavorarvi, a turno, un giorno alla settimana, chiudendo in tale giornata il proprio ambulatorio e trasferendosi al CAP insieme ai propri assistiti, dove farebbero esattamente lo stesso lavoro di quello fatto nel proprio ambulatorio, ma senza i supporti informatici, cioè senza la documentazione clinica, e per di più sopportando i disagi e gli oneri connessi allo spostamento di sede, distante dall’area di residenza degli assistiti.
 
Un esempio: il dr. Rossi che opera nel territorio del 4° Distretto e ha il proprio ambulatorio in V.le Raffaele Sanzio, nel rione periferico di San Giovanni, ogni giovedì chiude il suo ambulatorio e si sposta nel CAP del 4° Distretto, sito nel sotterraneo dell’Ospedale Maggiore, quindi in centro città, e gli assistiti, per lo più residenti nel rione di San Giovanni, si recano al Maggiore, utilizzando i molti autobus che collegano San Giovanni al centro città. Arrivati al Maggiore gli assistiti del 4° Distretto incrociano gli assistiti del 2° Distretto, che dal rione di San Giacomo si spostano ai piani superiori del Maggiore, ove ha sede il CAP del 2° Distretto, e dove quel giorno riceve il dr. Bianchi, spostatosi dal suo ambulatorio di p.zza Puecher, nel rione di San Giacomo.
 

 
Sembra una riedizione moderna dell’istituto del “facite ammuina” della real marina del Regno delle Due Sicilie, utilizzato quando gli alti dignitari di corte facevano visita alle navi e i comandanti dovevano far vedere che tutto l’equipaggio era impegnato.
 
“All’ordine Facite Ammuina: tutti chilli che stanno a prora vann’ a poppa e chilli che stann’ a poppa vann’ a prora; chilli che stann’ a dritta vann’ a sinistra e chilli che stanno a sinistra vann’ a dritta; tutti chilli che stanno abbascio vann’ ncoppa e chilli che stanno ncoppa vann’ bascio passann’ tutti p’o stesso pertuso; chi nun tene nient’ a ffà, s’ aremeni a ‘cca e a ‘ll à”.
 
Il CAP è solo una delle molteplici espressioni dell’inadeguatezza della legge di riforma regionale, poiché a fronte dell’impossibilità/inutilità della realizzazione dei CAP, si sono invece già realizzati pesanti tagli, come la drastica riduzione di posti letto per acuti e l’irragionevole soppressione di strutture ospedaliere.
 
Nonostante le ormai chiarissime evidenze in tutta la regione, non solo a Trieste, del degrado del nostro sistema sanitario pubblico, fino a pochi anni fa tra i migliori del paese, non sembra esserci ancora in chi governa il dubbio che forse qualcosa è sbagliato e andrebbe quindi corretto, perché andando avanti così le carenze assistenziali si faranno sempre più pronunciate e i danni ai malati potrebbero diventare irreparabili.
 
Walter Zalukar
 

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  1. Tutta la riforma è impostata su formule nuove ed acronimi che hanno permesso di smantellare il vecchio, ma che, non esistendo studi, piani di fattibilità e decreti attuativi, non permettono di volgere ad alcunchè di nuovo. Si poteva lasciare tutto come prima. Infatti si sono solo moltiplicati i disagi ed i rischi, smantellando un sistema che funzionava e volgendolo al caos. Siamo quasi a due passi dalla debacle. Inoltre a Tolmezzo pare si voglia togliere, da quanto scriveva Tanja Ariis sul Messaggero Veneto il 4 marzo 2017, chirurgia vascolare, per centralizzare tutto ad Udine, con prolungamento delle liste d’attesa e con disagi da spostamento per i pazienti. Insomma Udine appare sempre più, come scrissi oltre due anni fa, caput mundi. E più si chiude il periferico, più si intasa il centrale, più i disservizi ed i problemi aumentano, con ripercussioni sulla salute. I servizi non si cambiano con bacchette magiche e sorrisi. Infine i medici di base, che pare dovrebbero avere, per Telesca, i poteri dei super- eroi per fare per 1300 assistiti tutto quello che per loro ella ha previsto, non tengono schede informatizzate per i loro pazienti. Non solo, ma se le carte volgono a diagnosi errata, fidarsi solo di loro è una tragedia. Ma anche fidarsi solo delle carte anche se con diagnosi corretta, potrebbe essere una tragedia. Infatti un cardiopatico potrebbe avere una infezione, ma se risulta solo che è cardiopatico, per problemi psicologici di strutturazione cognitiva, un medico potrebbe tendere a riportare alla patologia nota i sintomi. Il paziente che sta male deve essere visitato possibilmente a domicilio e se del caso, inviato al pronto soccorso. Non c’è altra via, secondo me. E le riforme si studiano, non si tolgono come il coniglio dal cappello del prestigiatore.

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